Un thriller crudo, sostenuto, ma illuminato da sprazzi
poetici. Questo è ‘La fine della storia’, l’ultimo romanzo pubblicato da
Luis Sepúlveda,
purtroppo recentemente scomparso.
In questo libro affronta un passato che torna, che insegue fino
su un’isola della Patagonia. Un passato col quale lo stesso Sepúlveda sembra
voler fare i conti, definitivamente. Si è speculato molto su quanto Juan
Belmonte sia un alter ego dell’autore, se non l’autore stesso. Ma su di lui
l’autore è stato chiaro in più interviste: Belmonte è un personaggio cui ha
donato parte della sua biografia.
Resta che quando non scrive favole, la sua narrativa affonda
le radici su fatti spietatamente veri. E tutto ciò che accade è realistico
quanto in un racconto di Conrad, o di Hemingway. Le sue storie attingono a un
vissuto di esperienze dirette, di sentimenti e ricordi assorbiti dalle voci dei
protagonisti. L’unica intermediazione risiede nella sensibilità di un artista sempre
coerente a sé stesso.
Un libro crudo, dicevo, dove la rappresentazione senza
compromessi dell’orrore arriva con un intento preciso: tracciare il profilo dei
torturatori di Pinochet. Ma non ce n’è neanche per molti ex compagni di lotta, per
gli ex combattenti che son finiti in Russia o a Cuba, o nei partiti più o meno progressisti che hanno finito per sposare le ragioni delle multinazionali. Il disincanto e la delusione, le riflessioni sugli
uomini, la storia e le idee, arrivano attraverso il filtro nostalgico della breve avventura utopica, un’avventura vissuta come un sogno pulito al
fianco di Salvador Allende.
Juan Belmonte è un uomo dall'umorismo sprezzante, un uomo ormai scettico che vive al limite della clandestinità e per questo vulnerabile al ricatto. La missione che gli viene proposta, secondo il suo codice d’onore, è moralmente accettabile. Ma gli
eventi non sono mai ciò che sembrano e le situazioni si capovolgono più volte,
con sostanziosi colpi di scena. I continui ribaltamenti fanno da specchio alla situazione politica e
sociale evolutasi nel corso di mezzo secolo, dagli anni ’70 quando gli
schieramenti erano meno confusi, fino alla situazione geopolitica attuale,
con inversioni di rotta in seno alle varie sponde, allora inimmaginabili. Per illustrare il disagio attinge a ricordi, riflessioni personali e a brillanti, quanto amari, quadretti:
"Ora stava dall'altra part del tavolo ridotto a un grassone alcolizzato, con giusto la forza di reggere il Rolex d'oro che sfoggiava al polso sinistro"
E ancora:
"Proprio così: i russi ricchi vogliono mangiare mele cilene e i cileni ricchi vogliono puttane russe. Il mondo è cambiato e io brindo al cambiamento" aggiunse Slava.
"E io che diavolo c'entro col suo nuovo ordine mondiale?"
Sullo
sfondo c’è la Patagonia, terra intensa alla fine del mondo, un’Itaca dove tornare, e c’è
una Santiago del Cile che Belmonte teme di non riconoscere più, dove l’unico
punto di riferimento saldo nella memoria del cuore, quella ineradicabile, è l’abitazione del
‘dottore’. Così chiamavano Allende i membri della sua guardia del corpo: gli
amici personali.
Credo sia superfluo aggiungere che malgrado si tratti di un
thriller serrato, ben congegnato e articolato, come ogni opera di Sepúlveda anche
‘La fine della storia’ trasuda interrogativi sul senso di umanità.
Leggi anche:
Sepúlveda e il Mare alla fine del mondo
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